Refini: “Bisogna fare tesoro degli errori, quest’anno dovrà servire da lezione”
Per tanti anni è stato uno dei cronisti di punta al seguito del Siena. Numerose le esperienze vissute al fianco della Robur, così come i ricordi lasciati in custodia. Oggi, invece, Tommaso Refini è il responsabile per l’Italia del gruppo Stats Perform nei rapporti con club, Lega e Federazione. Neanche la lontananza da Siena gli ha impedito di seguire le vicende dei bianconeri in questi ultimi anni in cui la Robur ha potuto viverla solo da spettatore, e al Fedelissimo Online, sua casa per molto tempo, ha raccontato il suo punto di vista in merito agli accadimenti dell’ultimo periodo.
Tommaso, ripartiamo dall’estate 2020: come hai reagito alla seconda rovinosa caduta della Robur? Ti aspettavi che la Durio non iscrivesse il Siena?
«Ho reagito male, perché confesso che non mi ero ancora ripreso dal primo fallimento. Da parte mia stavolta non era atteso, se non negli ultimi mesi; ci sono dei segnali riconducibili a situazioni di questo tipo che dopo un po’ impari a riconoscere. Ma la speranza di non ricaderci un’altra volta era talmente tanta che è stato accolto molto male. Perché sappiamo bene quanto questi episodi condizionino le stagioni a venire».
Attualmente gli eventi stanno prendendo una piega molto diversa rispetto alla ripartenza di sei anni fa.
«Dopo il primo fallimento era andato tutto bene se vogliamo, però non è sempre scontato che vada così. L’uscita dal primo fallimento è stata una parentesi positiva, si era reduci da anni sulla cresta dell’onda, il sentore era diverso rispetto all’estate scorsa, un anno balordo per tanti motivi».
Di questa ultima parentesi societaria, quali sono i rimpianti principali a tuo avviso?
«Ci sono 2-3 elementi. Sicuramente la mancata continuità tecnica, perché il percorso di Mignani meritava che fosse data continuità anche al gruppo squadra. Secondo me in Serie C è talmente difficile trovare identità dal punto di vista tecnico, che quando la trovi devi avere la capacità di insistere».
Poi?
«Il secondo rimpianto grosso è che gli investimenti fatti non sono stati proporzionati rispetto al risultato. Mi duole dirlo, ma il calcio in questo è abbastanza severo; evidentemente, ad investimento economico rilevante non era abbinata una competenza tecnica all’altezza di quel tipo di investimento. Il calcio nella partita o nella mezza stagione può mentire, alla lunga no».
Il terzo?
«La finale di Pescara, come momento in quanto tale. Anche se, più che la finale, sono le problematiche che ti hanno portato a non giocarla nelle condizioni migliori. Ma come detto credo che l’errore principale sia stato non dare continuità ad un certo tipo di lavoro, e soprattutto l’aver speso più di quanto raccolto, per delle lacune di competenza tecnica».
Nell’immaginario collettivo degli sportivi due fallimenti in sei anni difficilmente passano inosservati. Come è stato visto da fuori il declino del Siena?
«Secondo me va fatta una contestualizzazione. Questa decadenza successiva fa ancora più effetto perché si specchia rispetto a 10 anni dorati. Il calcio di oggi racconta tutti gli anni di piazze che si perdono per strada e con difficoltà riescono a tornare su. Ma nell’immaginario esterno questo epilogo viene sempre messo in comparazione a quei 10 anni. E questo lascia interdetti».
L’annata corrente era invece partita sotto dei buoni auspici, prima che naufragasse a causa di alcune scelte societarie.
«Credo che questa stagione sia stata condizionata da un lato dalle problematiche estive, perché evidentemente un fallimento nell’anno del Covid è un evento che ti segna. Ma probabilmente anche da una sottovalutazione, al momento delle scelte, dell’importanza del progetto tecnico. La D è un campionato talmente difficile che il focus deve essere sul campo e con persone esperte della materia».
E come detto, a stagione in corso la società si è complicata la vita da sola.
«La problematica che si è creata con il cambio dell’allenatore è stato un autogol che adesso ti mette in condizione di dover fare di tutto e di più. Le chance per tornare sopra ci sono, ma ora non sei più padrone del tuo destino. E oggettivamente chi è davanti in questo momento merita di starci».
Il ritorno di Gilardino ha ridato speranze ma la situazione sembra ormai irrecuperabile.
«Richiamare Gilardino era l’unica cosa da fare. Ci sarà tempo per le valutazioni, l’unica urgenza era rimettere insieme i cocci. Adesso l’ambiente deve stringersi intorno alla squadra, a fine anno si tirerà una riga».
In estate la nuova proprietà si era presentata con grandi ambizioni: che idea ti sei fatto dei vari progetti?
«I temi sono interessanti, e questo lo abbiamo sempre detto fin dai tempi in cui il Siena era in altre categorie. Ma per come è fatto il calcio oggi, c’è una netta distinzione tra il calcio business della Serie A e il resto. Quando sei in Serie D, il tuo primo tema deve essere tornare tra i professionisti: senza quel tipo di passaggio, tutti gli altri non andranno mai a concretizzarsi».
Prematuro quindi parlare di nuovo stadio se non si è strutturati dal punto di vista sportivo?
«Prima ti serve la torta se vuoi mettere la ciliegina. In Serie A è giusto che le squadre ragionino sul progetto industriale per appoggiarci sopra quello sportivo. Ma in D devi vincere il campionato e tornare sopra. Quando sarai tornato a galla quei tipi di ragionamenti avranno più logica. Il clima sarà diverso, avrai riportato serenità e attaccamento alla squadra. A parole è giusto che la proprietà pensi a certi aspetti, ma ora siamo in Serie D».
Nella tua carriera da giornalista, qual è stato il momento sportivamente più bello?
«Senz’altro la notte di Genova del 2003. Tutto il resto arriva da lì. Ma va menzionata anche la stagione precedente, perché è giusto ricordarsi anche come si è arrivati a quella notte. Quella ha sbloccato mille altri racconti e storie vissute».
A De Luca hai dedicato anche un lungometraggio (“La favola del Presidente”, ndr): è lui il personaggio al quale sei rimasto maggiormente legato durante i tuoi trascorsi al seguito del Siena?
«Sicuramente sì. Nello sport americano si parla molto di legacy, intesa come lascito. Al di là di quello che ha raggiunto, De Luca ha lasciato una legacy importante perché ha fatto capire a noi tutti che anche il Siena poteva stare a certi livelli. Quell’insegnamento vale più di tante altre cose raggiunte – anche da lui – negli anni. Perché quella legacy ce l’hai anche oggi: il sentirsi ancora ferito dal primo fallimento è perché intimamente ti sei convinto che potevi stare lì. Ha fatto scattare un ragionamento».
Da tifoso, hai un auspicio particolare per il presente e per il futuro?
«Al momento è stare vicino alla squadra, senza perdere ulteriori energie in ragionamenti e discussioni. Per il futuro, l’auspicio è che questa stagione possa essere di esempio per le prossime, e che si possa fare tesoro degli errori e delle cose positive. Bisogna capire l’importanza dei progetti tecnici e delle competenze specifiche che servono per le categorie in Italia, e fare in modo che questo anno serva da lezione».
(Jacopo Fanetti)
Fonte: Fol