Esclusiva Fol – Terigi: “Siena nel cuore, un peccato andar via ma lascio col sorriso”
“Sembra paradossale, ma nonostante i miei anni qui siano stati sempre difficili, tra salvezze sudate, contestazioni e mille cambi tecnici, Siena resta la piazza a cui sono più legato. Perché è nelle difficoltà che si creano i legami che poi ti porti con te per tutta la vita”. Ci ha sempre tenuto tanto, alla Robur, Leonardo Terigi. 43 presenze e 3 gol in bianconero in due diverse gestioni (quella della Durio e quella degli armeni), è stato costretto, a malincuore, a salutare la città. Aveva un accordo di massima con la vecchia proprietà, ma il passaggio societario ha rimescolato le carte.
“Sarebbe bello finire qui la carriera”, avevi detto alcuni mesi fa.
Era un’idea mia, mi ero messo in testa di continuare a Siena. Ci stavo bene, conoscevo l’ambiente, la città. Io sono uno di quelli romantici, fare tanti anni in una piazza mi avrebbe fatto piacere.
Invece non è arrivato il rinnovo.
Un po’ me l’ero immaginato. Se un dirigente vuole rinnovare non aspetta che sia tu a chiamarlo. Ho letto le parole del direttore, di voler dare una discontinuità col passato. Ci può stare. Dispiace perché potevo dare una mano. Ma non c’è nessun problema, il calcio è questo e ne prendo atto. Vado avanti, qualche anno a buon livello ancora lo posso fare. Mi dico sempre che sono vecchio ma alla fine ho 31 anni (ride, ndr). Sto valutando qualche proposta, compatibilmente con le esigenze familiari. Qualcosa troverò. Quanto al Siena, spero che dopo anni turbolenti possa trovare prima serenità e poi l’ambizione.
Senza cambio di proprietà saresti rimasto?
Avevo un accordo di massima con Cannella, aveva compreso subito quanto ci tenevo al Siena e mi disse: il prossimo anno ti faccio rinnovare. Anche Trabucchi, nel mini-ritiro dopo la fine del campionato, mi fece capire che l’intenzione era quella. Avevamo parlato anche di cifre, mancava solo la firma.
Se fossero rimasti gli armeni, avremmo probabilmente visto una squadra piena di stranieri.
A Trabucchi dissi: cerchiamo di non commettere gli errori ripetuti nel passato. La C e la D sono campionati che devi conoscere. Anche come cultura di lavoro sono diversissimi dai campionati esteri.
Commentiamo gli ultimi due anni. Il primo, in D, difficilissimo. Il Covid, le rivoluzioni degli armeni, le disfatte in campo. E tu eri uno di quelli costretti a metterci la faccia. Mi ricordo un tuo commento: “Non esiste perdere a Trestina”.
Lì ero avvelenato, arrivati a fine stagione eravamo quasi al limite. Quando hai ambizioni e aspettative devi mantenerle, le chiacchiere le porta via il vento. La squadra quell’anno fu costruita tardi, di “vecchi” eravamo in pochi. Era una squadra di vertice ma non ammazza-campionato. La fortuna fu Gilardino che trovò la linea giusta, tutti remavano dalla stessa parte. Il ribaltone ci tagliò le gambe. Mi ricordo lo spaesamento dei giovani perché non capivano cosa volesse il mister. Poi quella del Siena non è una maglia qualunque e nei momenti difficili pesa. Col ritorno di Gilardino e un aiuto dal mercato comunque conquistammo i playoff. Fu una gran cosa perché portò al ripescaggio.
Quale immagine ti viene in mente per prima di quell’anno?
Mi ricordo la disfatta di Badesse, rimasta nella mente dei tifosi. Feci allenamento individuale la mattina, avevo un piccolo infortunio. Il pomeriggio andai comunque in panchina e le davo io le indicazioni. Gazzaev le inviava a Pahars, che però non parlava italiano. Io l’inglese non lo conosco benissimo, però parlando di calcio in qualche modo ti intendi.
C’era poi una difficoltà maggiore dovuta all’interprete.
Nel pre-partita Gazzaev cercava di caricare la squadra, ci dava la formazione e qualcosa a livello emotivo. Che però non passava, non veniva trasmesso. L’interprete era un ragazzo giovane, spaesato. È stato un mese e mezzo paradossale.
Il secondo anno forse ha fatto più male per come erano le premesse. Il ripescaggio, i grandi ritorni, i big dal mercato. Poi iniziano le rivoluzioni e tutto crolla. Quanta responsabilità dai alla squadra?
Eravamo partiti senza sapere la categoria, nel limbo, ma svolgemmo un buon ritiro e una volta saputa la categoria fu costruita una squadra forte. All’inizio i risultati si vedevano. L’errore grande è stato quello di dire: puntiamo a vincere il campionato. Nel calcio bisogna fare attenzione alle dichiarazioni. Do delle responsabilità alla squadra, perché in campo andavamo noi, però Gilardino fu mandato via quando eravamo quarti in classifica. È vero, ci fu la brutta sconfitta a Viterbo, ma la giornata dopo arrivò la scossa quando pareggiammo in dieci col Pescara. Lo spogliatoio non si è mai spaccato, ci siamo messi sempre a disposizione del nuovo allenatore. Però idee nuove, tattiche nuove… era come riiniziare sempre da capo.
Dopo il pari, con tuo gol, contro l’Imolese, a gennaio, ti sfogasti in conferenza dopo aver ricevuto alcune offese personali.
Era da un po’ che sentivo alcune frasi. “È giocatore sempre rotto”, “non gioca mai”. Io so quello che ho vissuto in carriera, quello che ho patito. I miei infortuni muscolari dipendevano da problemi alle anche. Fatta l’operazione, grazie al lavoro, sono riuscito a giocare con continuità. Lo sfogo era generale, lì decisi di metterci un punto. Se devo dire qualcosa la dico, e mi sembrava il momento giusto. Mi scrissero in tantissimi tifosi, ricevetti mille attestati di stima.
Nel mercato invernale sembrava fatta con l’Arezzo. Come è andata la vicenda?
Ero in scadenza e avendo famiglia dissi al procuratore: qua non mi rinnovano, prova a vedere se c’è qualcosa in giro. Con l’Arezzo avevamo intavolato la trattativa, poi mi tirai indietro. Non so, lo vedevo come uno sgarro al Siena. Inoltre erano andati via Milesi e Conson, potevo avere più spazio. Pensai: mi gioco le carte qui.
E la scelta in un certo senso ha pagato, perché sono forse arrivate, lo scorso anno, le tue migliori prestazioni in bianconero.
Mi sentivo importante nel gruppo, avevo trovato il giusto equilibro, non ero mai stato meglio psicologicamente. Poi c’è stato l’infortunio paradossale, una ginocchiata tra pube e adduttore. Causarano mi disse: in tutta la mia vita non avevo mai visto una cosa del genere.
Parliamo anche della tua prima esperienza a Siena. La stagione 2016/17, la prima della gestione Durio, con una tribolata salvezza, e poi metà della stagione successiva, quella della finale di Pescara.
Il primo anno fu particolare, difficile, di contestazioni. L’anno successivo lo spogliatoio era meraviglioso, mi trovavo da Dio ma D’Ambrosio e Sbraga stavano facendo bene e giocavo poco. Per la mia carriera dovetti fare una scelta diversa. A malincuore andai via, poi arrivarono quelle imprese calcistiche perché era uno spogliatoio forte, unito.
In bianconero hai vissuto più momenti brutti che belli. Eppure, il legame con Siena è fortissimo.
Sembra strano, in effetti. Salvezze, contestazioni, mille cambi di allenatori… ma è nelle difficoltà che si creano i legami che ti porti per tutta la vita. Ho tantissimi amici a Siena, tanti giocatori che hanno condiviso momenti difficili. Penso sia questa la chiave per dire che la squadra con cui sono più legato per adesso è il Siena.
Ti rivedremo in città? C’è da seguire Guberti in questa nuova veste.
Stefano è pronto, ama il calcio talmente tanto che in qualunque situazione si trova a suo agio. Lui è ancora dentro giocatore, in campo è sempre stato il fenomeno. Dovrà capire che deve stare fuori dal rettangolo di gioco. Ha un ruolo importante, ma penso meritato. Per l’uomo ma soprattutto per le conoscenze che ha acquisito in carriera. A Siena sì, mi rivedrete, ma inizialmente spero da avversario!
La porta della Robur rimane socchiusa?
Ho salutato col sorriso, a Siena so che c’è gente che mi vuole bene. Ora mi voglio concentrare sulla prossima avventura. Per il futuro è naturale, un pensierino a Siena ci sarà sempre.
(Giuseppe Ingrosso)
Fonte: Fol